La bontà viene dalla parola greca avgaqwsu,nh.
avgaqo,j = bello, buono;
µesed lessema fondamentale,
che però è molto ampio di significato.
Nel testo
di San Paolo però abbiamo avgaqwsu,nh accanto a crhsto,thj, che è un apparente
sinonimo.
L’italiano
traduce con benevolenza e bontà, come due distinti frutti dello Spirito, che
stanno in realtà entrambi nell’ambito della µesed
ebraica.
Ricordiamo
che parliamo di frutti dello Spirito, che c’è differenza tra un frutto e
un seme. Il frutto è il compimento di un processo che inizia con un seme. Qui
abbiamo a che fare con frutti, non con semi. Ovverosia questi sono punti di
arrivo, non sono punti di partenza. Sarebbe grave pensare nella vita spirituale
che da questo punto si parte; a questo punto si arriva ed è frutto dell’opera
dello Spirito. Questa non è opera umana e basta. Questo è l’incontro dello
Spirito Santo con lo spirito dell’uomo. lo Spirito Santo entrando nell’uomo
procura questo tipo di realtà.
Siamo al
cap. 5 di Gal, dove c’è una contrapposizione fra le conseguenze delle opere
della carne e il frutto dello Spirito. Allora bisogna stare alle scaturigini,
cioè al luogo dove sgorgano nell’uomo i processi del bene o del male, a seconda
che l’uomo sia redento o che l’uomo non lo sia.
È un frutto
della redenzione.
Dobbiamo
salvare la bontà dai malintesi delle mistificazioni involontarie, talvolta
volontarie del linguaggio e della lettura o della rilettura della spiritualità
cristiana data dalla cultura dominante (dalla cultura di oggi) o dalla cultura
personale o dalle errate impostazioni personali.
La bontà
umana o il buonismo, una percezione che abbiamo di noi stessi: agiamo verso
qualcuno con bontà: questa azione resta intrinseca all’agente. Non ha nulla a che
vedere col concetto neotestamentario ed ebraico di bontà. La morale cristiana è
altra, rispetto all’uomo come individuo che in se stesso spiega i suoi atti,
cosa di antica matrice ellenistica.
La bontà
del nostro testo non è il buonismo, l’essere carini e sempre sorridenti anche
quando non sarebbe il caso, non è il sorriso di sottomissione o di adulazione,
che tende a raggiungere obiettivi per se stesso.
La bontà (avgaqwsu,nh) deriva da avgaqo,j, che indica la qualità migliore di un’azione.: Il
bello, il buono in quanto maturazione piena di un progetto, di una persona.:
Una persona è buona / bella in quanto è arrivata a dare il meglio di sé. È il
senso dell’aspetto migliore del bene portato alla sua sommità, alla sua vetta.
C’è un
gusto che riguarda il meglio e contemporaneamente l’ambito relazionale. Stiamo
parlando di qualcosa che riguarda l’altro.
La bontà
neotestamentaria non è, ripetiamo qualcosa di intrinseco, per cui io difendo il
mio modo di essere buono (non voglio essere/sentirmi cattivo e voglio essere
riconosciuto come persona buona; ovvero faccio un atto visibilmente buono in
modo che l’altro che mi sta di fronte mi rimandi indietro l’immagine di me come
persona buona: ho bisogno che mi diciate che sono buono, cioè ho bisogno che
non mi diciate che sono cattivo). È invece qualcosa che riguarda l’altro, si
sposta l’attenzione sull’altro: il meglio per l’altro. È il gusto di capire
qual è la cosa più buona (migliore) da fare per l’altro, dove l’altro diventa
oggetto di questa attenzione. Non è una bontà strumentale a me stesso, ai miei
bisogni, ai miei interressi, ma è un atto gratuito che tende al meglio per
l’altro.
La regola
non è una situazione di coerenza verso me stesso, ma l’assoluto è il bene
dell’altro. Usciamo dal campo degli atti (oggettivamente) buoni o cattivi per
me, entriamo nel campo degli atti soggettivamente buoni per l’altro / ciò che è
utile per l’altro. Cioè diventa secondario se io ho fatto la cosa che mi sento,
che mi gratifica, che mi salva, che fa scattare negli altri una buona
impressione su di me, che seduce gli altri (cioè li conduce a sè); no, sto
facendo la cosa che porta l’altro al meglio. C’è addirittura chi fa le cose
davanti agli altri per apparire ok e poi di nascosto si comporta male.
Vediamo di
capire esistenzialmente quello che abbiamo detto.: è il gusto che uno prova
quando riesce ad ottenere un buon risultato per qualcuno
Partiamo da
un es. banale: è il piacere per esempio di cucinare per qualcuno. Il piacere di
vedere l’altro contento per quello che sta mangiando. Fare qualcosa che da
all’altro gioia, il piacere di mettere l’altro nelle condizioni in cui è
contento / accogliere una persona in casa e metterla a suo agio. L’altro è
contento di quello uno gli sta offrendo. È il piacere di mettere gioia nell’altro.
È il gusto per es. di veder ridere un bambino. È il piacere di vedere un
bambino allegro, avergli fatto qualche coccola, una faccia strana, un
complimento che per il bambino è gioia. [il contrario è l’invidioso: non vuole
vedere l’altro contento = non fa complimenti, riconoscimenti delle qualità
altrui, anzi cerca di sottrarre, di sporcare, butta sempre la parolina che
sporca l’altro, che offusca la gioia altrui].
C’è
l’allegria di vedere il proprio coniuge gioire, per una sorpresa, per un regalo.
Il piacere che si prova nel vedere una persona rallegrarsi, avere il meglio,
stare meglio. [L’invidioso (la persona non buona) non si spreca mai per gli
altri, è tutto concentrato su se stessa].
È quel
gusto che si prova a curare un malato e vedere il malato migliorare.
Sono le
intuizioni che si hanno quando l’altro è considerato come cosa preziosa /
percepire l’altro come luogo / termine dei propri atti, autentico senso della
propria espansione di sé.
Di fatto la
gioia altrui, il miglioramento dell’altro, la sua condizione di maggior
felicità diventa oggetto della bontà.
La bontà è
tutta proiettata al miglior risultato possibile per l’altro.
Questo
implica dunque anche dei limiti da porre all’altro. L’altro va reso
felice, ma cristianamente parlando (e anche umanamente) non si tratta di
renderlo felice in maniera infantile, semplicemente accontentando /
assecondando l’altro o impedendogli di scontrarsi realisticamente coi propri
difetti. L’amore per l’altro spinge a cercare il suo vero bene. C’era chi
diceva che sa amare solamente chi sa dare un calcio ad uno zoppo, se questo
zoppo ne ha bisogno. Di fatto è vero che il bene dell’altro non sempre
corrisponde a ciò che l’altro desidera. Un medico che ti deve curare deve farti
delle cose che talvolta possono far male, eppure questo è al servizio del
perseguimento di un bene per te.
Se un
padre fa solo quello che il figlio vuole e lo asseconda sempre, sbaglia.
Questo padre è un buonista, che non corregge, che no sa proteggere / custodire
e che creerà tanti problemi a questo figlio.
Un padre
sano / maturo sa deludere il figlio: se il figlio ha bisogno di passare
per dei luoghi e per delle cose che gli sono necessari per la sua crescita,
anche se faticosamente, il padre gli farà attraversare certe esperienze. Non
può essere l’assoluto dell’azione il desiderio o le convinzioni dell’altro.
C’è
certamente da tenere in conto la libertà del figlio, altrimenti si cade nel
paternalismo, …, ma il bene dell’altro talvolta prescinde dal parere
dell’altro.
Dunque la bontà,
frutto dello Spirito, non è né il permissivismo né un paternalismo esasperato.
C’è un
percorso
da compiere, da un punto di partenza a un punto d’arrivo. Punto d’arrivo, cui
dobbiamo giungere è l’altro. Se vogliamo capire cos’è la bontà dobbiamo uscire
da un diffuso individualismo, che è latente anche in tante interpretazioni
spirituali del Vangelo, in cui la nostra attenzione rimane fissata sul nostro
processo di crescita, sulla nostra maturazione, sul nostro essere capaci o non
capaci, finalmente risolti o non risolti.
Partiamo da
un punto essenziale: quando Gesù chiama qualcuno nel vangelo, questi devono
abbandonare sempre qualcosa: c’è sempre una parte da lasciarsi alle spalle.
Se vogliamo
andare a fondo nel viaggio verso la bontà, c’è sempre qualcosa da lasciarsi
alle spalle. Curiosamente il punto d’arrivo è il bene e la gioia dell’altro.
Quindi la cosa da lasciarsi alle spalle sono proprio i propri problemi: noi per
noi stessi non siamo niente, non risolviamo niente: l’uomo è un essere relazionale.
La bontà è la felicità nell’ambito della relazione fra le persone: l’uomo,
essere relazionale, ha il suo compimento nell’uscire da se stesso.
Tantissimi problemi che le persone stanno affrontando, anche nel mondo
religioso, sono in realtà problemi da abbandonare. Molto spesso nella
vita spirituale, le persone sono incastrate da vicoli ciechi spirituali per cui
non possono andare da nessuna parte.
C’è una
legge essenziale nella lettura dei testi / nella lettura dei dati: per
capire le cose le devo interrogare. Se una domanda non trova risposta non è
detto che la risposta non arriva ancora per cui bisogna cercare meglio, tante
volte il problema è che è la domanda ad essere sbagliata. Non è un problema di
risposta che non arriva, ma di domanda che va cambiata.
La bontà è
il frutto di una domanda azzeccata, giusta fatta su noi stessi e la mia
felicità.:
come potrò io risolvere i miei
propri problemi?
Se le
ferite e incongruenze che un uomo porta in sé, vengono lette sempre per se
stessi, rimangono sempre realtà irrisolvibili.
Esiste
un’altra chiave per leggere tutte le nostre fragilità, le nostre incongruenze,
le nostre irrisoluzioni.
Qual è
la chiave per porsi le domande in modo giusto?
Bisogna
partire da: “chi sono io?”
Il Vaticano
II dice che Cristo rivela l’uomo all’uomo. Cristo è verità dell’uomo. Cristo
chi è? “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era
Dio”: dunque Cristo è una parola, è una cosa detta, detta all’altro.
Se io
capisco me stesso e cerco di configurarmi, secondo quello che io sono, non
arrivo mai ad una soddisfacente quadratura del cerchio, chiusura dell’enigma
delle mie incongruenze.
Ma se io
sono una parola, se io sono in quanto dico, in quanto mi relaziono, allora
posso anche avere una storia personale segnata da ferite, sofferenze,
incongruenze. Se mi domando: perché queste cose sono successe proprio a me?
Perché mi lasciano delle ferite che mi condizionano e mi limitano … io giro
continuamente su una spirale inutile che mi porta sempre e solo a me stesso. E
se invece tutto questo che magari io ho patito potesse servire a qualcuno?
Ecco che ho trovato la chiave.
Se io cerco
di spiegare me stesso per me stesso non ne esco, se invece mi penso come una
parola, come una missione, come funzione di altri, se il mio scopo è dare gioia
all’altro allora le mie sofferenze diventano compassione, saggezza per capire
l’altro, persino i miei errori diventano strumento per poter servire meglio,
aiutare meglio l’altro: e qui io mi realizzerò come persona.
Vogliamo
essere quadrati, centrati, risolti … e non ci rendiamo conto che invece proprio
le nostre fragilità, le nostre irresoluzioni ci per mettono di fare il salto
della compassione, dell’amore.
Abbiamo da
scoprire questo: noi per noi stessi non siamo niente. La bontà, studiata a
fondo ci spiega qualcosa della nostra identità.
Dobbiamo
pensarci come il pezzo di un puzzle: se ti do in mano il pezzo di un puzzle e
basta, non ti serve proprio a niente, non definisce niente. Ma se io ho in mano
un pezzo di puzzle (cioè me stesso) e poi vado alla cornice di un puzzle in cui
mancano dei pezzi, io sono un pezzo di questa cornice, mi colloco là dentro,
allora trovo un senso, mi spiego all’interno di un disegno che non si esaurisce
in me. Io non mi spiego per quello che sono in me stesso, ma per quelle che
sono le occasioni che vado trovando intorno a me.
Tante mie
ferite e povertà diventano importanti, fondamentali, diventano capacità nel mio
annunciare il Vangelo. Anche tanti ostacoli esteriori possono essere al
servizio di tutto questo. se vediamo la vita di tanti santi, certe situazioni
mortificanti o pericolose, sono diventate qualcosa che ha fatto risplendere
ancor di più la potenza del Vangelo.
Bisogna non
continuare a cercare di cambiarsi, ma cercare di capire qual è il proprio posto
nel puzzle, cercare di capire che per come si è fatti si è molto utili. Se
messi nel posto giusto si è molto utili. A volte l’uomo continua a chiedersi:
“Chi sono?”, mentre dovrebbe chiedersi: “A cosa servo? Che cosa posso fare di
buono?”
Nessun commento:
Posta un commento