La Bontà (Gal 5,22)


La bontà viene dalla parola greca avgaqwsu,nh.
avgaqo,j = bello, buono;
µesed lessema fondamentale, che però è molto ampio di significato.
Nel testo di San Paolo però abbiamo avgaqwsu,nh accanto a crhsto,thj, che è un apparente sinonimo.
L’italiano traduce con benevolenza e bontà, come due distinti frutti dello Spirito, che stanno in realtà entrambi nell’ambito della µesed ebraica.

Ricordiamo che parliamo di frutti dello Spirito, che c’è differenza tra un frutto e un seme. Il frutto è il compimento di un processo che inizia con un seme. Qui abbiamo a che fare con frutti, non con semi. Ovverosia questi sono punti di arrivo, non sono punti di partenza. Sarebbe grave pensare nella vita spirituale che da questo punto si parte; a questo punto si arriva ed è frutto dell’opera dello Spirito. Questa non è opera umana e basta. Questo è l’incontro dello Spirito Santo con lo spirito dell’uomo. lo Spirito Santo entrando nell’uomo procura questo tipo di realtà.

Siamo al cap. 5 di Gal, dove c’è una contrapposizione fra le conseguenze delle opere della carne e il frutto dello Spirito. Allora bisogna stare alle scaturigini, cioè al luogo dove sgorgano nell’uomo i processi del bene o del male, a seconda che l’uomo sia redento o che l’uomo non lo sia.

È un frutto della redenzione.
Dobbiamo salvare la bontà dai malintesi delle mistificazioni involontarie, talvolta volontarie del linguaggio e della lettura o della rilettura della spiritualità cristiana data dalla cultura dominante (dalla cultura di oggi) o dalla cultura personale o dalle errate impostazioni personali.

La bontà umana o il buonismo, una percezione che abbiamo di noi stessi: agiamo verso qualcuno con bontà: questa azione resta intrinseca all’agente. Non ha nulla a che vedere col concetto neotestamentario ed ebraico di bontà. La morale cristiana è altra, rispetto all’uomo come individuo che in se stesso spiega i suoi atti, cosa di antica matrice ellenistica.

La bontà del nostro testo non è il buonismo, l’essere carini e sempre sorridenti anche quando non sarebbe il caso, non è il sorriso di sottomissione o di adulazione, che tende a raggiungere obiettivi per se stesso.

La bontà (avgaqwsu,nh) deriva da avgaqo,j, che indica la qualità migliore di un’azione.: Il bello, il buono in quanto maturazione piena di un progetto, di una persona.: Una persona è buona / bella in quanto è arrivata a dare il meglio di sé. È il senso dell’aspetto migliore del bene portato alla sua sommità, alla sua vetta.

C’è un gusto che riguarda il meglio e contemporaneamente l’ambito relazionale. Stiamo parlando di qualcosa che riguarda l’altro.
La bontà neotestamentaria non è, ripetiamo qualcosa di intrinseco, per cui io difendo il mio modo di essere buono (non voglio essere/sentirmi cattivo e voglio essere riconosciuto come persona buona; ovvero faccio un atto visibilmente buono in modo che l’altro che mi sta di fronte mi rimandi indietro l’immagine di me come persona buona: ho bisogno che mi diciate che sono buono, cioè ho bisogno che non mi diciate che sono cattivo). È invece qualcosa che riguarda l’altro, si sposta l’attenzione sull’altro: il meglio per l’altro. È il gusto di capire qual è la cosa più buona (migliore) da fare per l’altro, dove l’altro diventa oggetto di questa attenzione. Non è una bontà strumentale a me stesso, ai miei bisogni, ai miei interressi, ma è un atto gratuito che tende al meglio per l’altro.

La regola non è una situazione di coerenza verso me stesso, ma l’assoluto è il bene dell’altro. Usciamo dal campo degli atti (oggettivamente) buoni o cattivi per me, entriamo nel campo degli atti soggettivamente buoni per l’altro / ciò che è utile per l’altro. Cioè diventa secondario se io ho fatto la cosa che mi sento, che mi gratifica, che mi salva, che fa scattare negli altri una buona impressione su di me, che seduce gli altri (cioè li conduce a sè); no, sto facendo la cosa che porta l’altro al meglio. C’è addirittura chi fa le cose davanti agli altri per apparire ok e poi di nascosto si comporta male.

Vediamo di capire esistenzialmente quello che abbiamo detto.: è il gusto che uno prova quando riesce ad ottenere un buon risultato per qualcuno
Partiamo da un es. banale: è il piacere per esempio di cucinare per qualcuno. Il piacere di vedere l’altro contento per quello che sta mangiando. Fare qualcosa che da all’altro gioia, il piacere di mettere l’altro nelle condizioni in cui è contento / accogliere una persona in casa e metterla a suo agio. L’altro è contento di quello uno gli sta offrendo. È il piacere di mettere gioia nell’altro. È il gusto per es. di veder ridere un bambino. È il piacere di vedere un bambino allegro, avergli fatto qualche coccola, una faccia strana, un complimento che per il bambino è gioia. [il contrario è l’invidioso: non vuole vedere l’altro contento = non fa complimenti, riconoscimenti delle qualità altrui, anzi cerca di sottrarre, di sporcare, butta sempre la parolina che sporca l’altro, che offusca la gioia altrui].
C’è l’allegria di vedere il proprio coniuge gioire, per una sorpresa, per un regalo. Il piacere che si prova nel vedere una persona rallegrarsi, avere il meglio, stare meglio. [L’invidioso (la persona non buona) non si spreca mai per gli altri, è tutto concentrato su se stessa].
È quel gusto che si prova a curare un malato e vedere il malato migliorare.
Sono le intuizioni che si hanno quando l’altro è considerato come cosa preziosa / percepire l’altro come luogo / termine dei propri atti, autentico senso della propria espansione di sé.
Di fatto la gioia altrui, il miglioramento dell’altro, la sua condizione di maggior felicità diventa oggetto della bontà.
La bontà è tutta proiettata al miglior risultato possibile per l’altro.

Questo implica dunque anche dei limiti da porre all’altro. L’altro va reso felice, ma cristianamente parlando (e anche umanamente) non si tratta di renderlo felice in maniera infantile, semplicemente accontentando / assecondando l’altro o impedendogli di scontrarsi realisticamente coi propri difetti. L’amore per l’altro spinge a cercare il suo vero bene. C’era chi diceva che sa amare solamente chi sa dare un calcio ad uno zoppo, se questo zoppo ne ha bisogno. Di fatto è vero che il bene dell’altro non sempre corrisponde a ciò che l’altro desidera. Un medico che ti deve curare deve farti delle cose che talvolta possono far male, eppure questo è al servizio del perseguimento di un bene per te.
Se un padre fa solo quello che il figlio vuole e lo asseconda sempre, sbaglia. Questo padre è un buonista, che non corregge, che no sa proteggere / custodire e che creerà tanti problemi a questo figlio.
Un padre sano / maturo sa deludere il figlio: se il figlio ha bisogno di passare per dei luoghi e per delle cose che gli sono necessari per la sua crescita, anche se faticosamente, il padre gli farà attraversare certe esperienze. Non può essere l’assoluto dell’azione il desiderio o le convinzioni dell’altro.
C’è certamente da tenere in conto la libertà del figlio, altrimenti si cade nel paternalismo, …, ma il bene dell’altro talvolta prescinde dal parere dell’altro.

Dunque la bontà, frutto dello Spirito, non è né il permissivismo né un paternalismo esasperato.
C’è un percorso da compiere, da un punto di partenza a un punto d’arrivo. Punto d’arrivo, cui dobbiamo giungere è l’altro. Se vogliamo capire cos’è la bontà dobbiamo uscire da un diffuso individualismo, che è latente anche in tante interpretazioni spirituali del Vangelo, in cui la nostra attenzione rimane fissata sul nostro processo di crescita, sulla nostra maturazione, sul nostro essere capaci o non capaci, finalmente risolti o non risolti.
Partiamo da un punto essenziale: quando Gesù chiama qualcuno nel vangelo, questi devono abbandonare sempre qualcosa: c’è sempre una parte da lasciarsi alle spalle.
Se vogliamo andare a fondo nel viaggio verso la bontà, c’è sempre qualcosa da lasciarsi alle spalle. Curiosamente il punto d’arrivo è il bene e la gioia dell’altro. Quindi la cosa da lasciarsi alle spalle sono proprio i propri problemi: noi per noi stessi non siamo niente, non risolviamo niente: l’uomo è un essere relazionale. La bontà è la felicità nell’ambito della relazione fra le persone: l’uomo, essere relazionale, ha il suo compimento nell’uscire da se stesso. Tantissimi problemi che le persone stanno affrontando, anche nel mondo religioso, sono in realtà problemi da abbandonare. Molto spesso nella vita spirituale, le persone sono incastrate da vicoli ciechi spirituali per cui non possono andare da nessuna parte.
C’è una legge essenziale nella lettura dei testi / nella lettura dei dati: per capire le cose le devo interrogare. Se una domanda non trova risposta non è detto che la risposta non arriva ancora per cui bisogna cercare meglio, tante volte il problema è che è la domanda ad essere sbagliata. Non è un problema di risposta che non arriva, ma di domanda che va cambiata.
La bontà è il frutto di una domanda azzeccata, giusta fatta su noi stessi e la mia felicità.:
            come potrò io risolvere i miei propri problemi?
Se le ferite e incongruenze che un uomo porta in sé, vengono lette sempre per se stessi, rimangono sempre realtà irrisolvibili.
Esiste un’altra chiave per leggere tutte le nostre fragilità, le nostre incongruenze, le nostre irrisoluzioni.

Qual è la chiave per porsi le domande in modo giusto?
Bisogna partire da: “chi sono io?”
Il Vaticano II dice che Cristo rivela l’uomo all’uomo. Cristo è verità dell’uomo. Cristo chi è? “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”: dunque Cristo è una parola, è una cosa detta, detta all’altro.
Se io capisco me stesso e cerco di configurarmi, secondo quello che io sono, non arrivo mai ad una soddisfacente quadratura del cerchio, chiusura dell’enigma delle mie incongruenze.
Ma se io sono una parola, se io sono in quanto dico, in quanto mi relaziono, allora posso anche avere una storia personale segnata da ferite, sofferenze, incongruenze. Se mi domando: perché queste cose sono successe proprio a me? Perché mi lasciano delle ferite che mi condizionano e mi limitano … io giro continuamente su una spirale inutile che mi porta sempre e solo a me stesso. E se invece tutto questo che magari io ho patito potesse servire a qualcuno? Ecco che ho trovato la chiave.
Se io cerco di spiegare me stesso per me stesso non ne esco, se invece mi penso come una parola, come una missione, come funzione di altri, se il mio scopo è dare gioia all’altro allora le mie sofferenze diventano compassione, saggezza per capire l’altro, persino i miei errori diventano strumento per poter servire meglio, aiutare meglio l’altro: e qui io mi realizzerò come persona.
Vogliamo essere quadrati, centrati, risolti … e non ci rendiamo conto che invece proprio le nostre fragilità, le nostre irresoluzioni ci per mettono di fare il salto della compassione, dell’amore.
Abbiamo da scoprire questo: noi per noi stessi non siamo niente. La bontà, studiata a fondo ci spiega qualcosa della nostra identità.
Dobbiamo pensarci come il pezzo di un puzzle: se ti do in mano il pezzo di un puzzle e basta, non ti serve proprio a niente, non definisce niente. Ma se io ho in mano un pezzo di puzzle (cioè me stesso) e poi vado alla cornice di un puzzle in cui mancano dei pezzi, io sono un pezzo di questa cornice, mi colloco là dentro, allora trovo un senso, mi spiego all’interno di un disegno che non si esaurisce in me. Io non mi spiego per quello che sono in me stesso, ma per quelle che sono le occasioni che vado trovando intorno a me.
Tante mie ferite e povertà diventano importanti, fondamentali, diventano capacità nel mio annunciare il Vangelo. Anche tanti ostacoli esteriori possono essere al servizio di tutto questo. se vediamo la vita di tanti santi, certe situazioni mortificanti o pericolose, sono diventate qualcosa che ha fatto risplendere ancor di più la potenza del Vangelo.

Bisogna non continuare a cercare di cambiarsi, ma cercare di capire qual è il proprio posto nel puzzle, cercare di capire che per come si è fatti si è molto utili. Se messi nel posto giusto si è molto utili. A volte l’uomo continua a chiedersi: “Chi sono?”, mentre dovrebbe chiedersi: “A cosa servo? Che cosa posso fare di buono?”

Nessun commento:

Posta un commento